La danza dell’esistenza

Ci sono persone che non riescono ad esprimere se stesse attraverso la parola. La loro essenza non trova favella, a volte perché verbalizzare rischia di ridurre ciò che sentono, pensano e vivono; altre volte perché la parola non riesce a cogliere l’“eccedenza” di cui sono portatori. L’Arte è dunque la loro via di comunicazione. Abbiamo già visto come la dimensione artistica sia un ponte tra interno ed esterno, un medium – inteso come “mezzo” – tra la dimensione interiore del soggetto e la sua epifenomenicità.  Laddove non arrivano le parole, arriva insomma l’Arte.

Oggi vogliamo soffermarci su un’arte in particolare, ovvero la Danza. Essa consente di esprimere la propria eccedenza, ovvero la propria Esistenza. Intendendo questa in senso etimologico: il termine deriva, infatti, da ex-sistĕre – letteralmente “avere l’essere da (un altro)” – ma anche “esistere fuori”. Fuori da sé, in comunicazione col mondo. La danza consente di aggirare l’ovvietà del consueto canale comunicativo, di spezzare le logiche assodate per arrivare all’altro ed esprimere se stessi, di irrompere nell’ordine precostituivo e rassicurante. Ecco perché è sempre stata perturbante, inquietante, destabilizzante. Mostra l’invisibile: quello che è dentro di noi e che è ineffabile. La danza è posta, ad esempio, da Nietzsche come emblema dell’atteggiamento che l’Übermensch – l’oltreuomo – ha nei confronti della vita:

“Io crederei solo ad un dio che sapesse danzare. E quando vidi il mio diavolo, lo trovai serio, esatto, profondo e solenne. Era lo spirito della gravità, per lui precipitano tutte le cose: non si uccide con l’ira, ma con il sorriso. Su, uccidiamo lo spirito di gravità! Ora sono leggero, ora volo, ora mi vedo sotto di me, ora è un dio che si serve di me per danzare”.

La danza di Zarathustra è il riscatto del corpo, da sempre vilipeso dalla religione e dalla morale tradizionale; il corpo è invece un canale per arrivare allo spirito, alla possibilità di tangerlo e di farlo esprimere. Attraverso la corporeità l’uomo può accedere, paradossalmente, alla dimensione più spirituale dell’esistenza, e viverla con leggerezza, spezzando la “gravità” e aprendo alla via del “sorriso” … che è poi il “Sì alla vita!” di Zarathustra, maestro dell’eterno ritorno dell’eguale. L’invisibile – il mondo interiore – passa attraverso quello visibile: la carne si fa testo. E testimonianza di sé. Questo scardina il consueto modo di intendere la corporeità, la libera dalla condanna che ha subito. Non a caso la danza ha sempre accompagnato riti misterici, cerimonie iniziatiche, celebrazioni magiche: le streghe ballavano in onore del diavolo; le Baccanti si dimenavano in un ballo sfrenato, in balìa di Dioniso, sino a farlo a pezzi. Fagocitano l’invisibilità del sacro e nutrono la visibilità delle loro carni. La menade danzante di Skopas (risalente al 330 circa a. C.) torce il proprio corpo verso il dio, con espressione appunto “estatica”: va fuori di sé per unirsi al divino.

Come dice Maurice Merleau-Ponty, il nostro corpo è un “essere a due fogli”, a contatto con due realtà, quella visibile e quella invisibile. Ad esempio, sappiamo di avere una schiena, ma non la vediamo; sappiamo che c’è, ma è difficile abbracciarla con il nostro stesso corpo, vederla con i nostri occhi. Il mondo è, per lui, quello che percepiamo:

“Dove porre il limite del corpo e del mondo, giacché il mondo è carne?
Il mondo visto non è nel mio corpo e il mio corpo non è nel mondo visibile a titolo ultimo: carne applicata a una carne, il mondo non la circonda e nemmeno è circondato da essa.
Partecipazione e imparentamento al visibile, la visione non l’avvolge e non ne è avvolta definitivamente. La pellicola superficiale del visibile non è se non per la mia visione e per il mio corpo. Ma la profondità, sotto questa superficie, contiene il mio corpo e contiene la mia visione.
C’è inserimento reciproco e intreccio dell’uno nell’altro”.

La chair, la “carne”, di cui parla Merleau-Ponty, è dunque qualcosa di ben diverso dalla mera res extensa, dal Körper: è intreccio, tessuto carnale di cui è fatto sia l’uomo che il mondo, quindi struttura stessa dell’essere; la carne è una sorta di orizzonte inglobante che scardina la dicotomia tipica della nostra tradizione filosofica, quella che si fonda sulla polarizzazione di corpo e spirito, e che invece mostra come questi stessi elementi siano annodati l’un l’altro, indistricabili. Visibile e invisibile, soggetto e oggetto sono in una trama, in rapporto chiasmatico, per cui l’uno rimanda all’altro. Il corpo del danzatore è Leib nel movimento artistico, corpo-vivente e vissuto; e il movimento è possibile solo attraverso la carne. Il corpo non è dunque solo un tramite, ma anche espressione dell’interiorità del soggetto danzante e dei mondi cui rimanda attraverso la sua carne in movimento. La finitezza del coreuta viene superata mediante l’esperienza della danza, che è un’azione visibile pregna di accessi all’invisibile. E, una volta terminata la rappresentazione, ciò che essa mostra rimane, sosta in quello spazio vuoto che lascia come traccia nello spettatore. Proprio come accade nell’arte di Pina Bausch.

Ho sempre ammirato l’opera di questa artista tedesca, scomparsa nel 2009 ma la cui eco ancora pervade il mondo della danza contemporanea. Le sue coreografie, spesso sibilline, hanno un effetto di Stoß, di “urto” sullo spettatore: esprimono il desueto, arrivando a toccare corde mai suonate, profonde. Sono performance che scuotono, destanti shock. Amo la declinazione contemporanea della danza soprattutto per lo stimolo ermeneutico che sortisce, per la sua mancanza di categorie che facciano arrivare subito al messaggio dell’artista; preferisco cercarlo, correndo magari anche il rischio di travisare il suo intento originario; preferisco sostare in quell’apertura che mantengono intatta. Nel vuoto in cui ti gettano. È vero, la Bausch annovera anche l’uso della parola come parte integrante del suo progetto (il Tanztheater, “teatrodanza”); accoglie, dunque, la recitazione oltre alla mera danza. Ma dà così vita a quell’eccedenza che invece verrebbe costretta dalla sola parola, tendendo così all’espressione dell’invisibile di cui ciascuno è portatore. Le sue coreografie infatti lasciano sempre spazio alla creatività del danzatore, libero di improvvisare, al fine proprio di far parlare la sua personale eccedente singolarità; così come lasciano spazio alla libertà interpretativa del fruitore. Questo genera ulteriore spiazzamento: ad ogni rappresentazione, sebbene abbia lo stesso titolo, si assiste ad un’espressività sempre nuova, risignificata alla luce dell’hic et nunc dello spettacolo stesso. Ecco perché i suoi protagonisti sono definiti “danzattori”, perché sono autori e attori dell’opera che inscenano. Creatori di se stessi.

La danza è proprio questo: creat(t)ività.

Ecco perché la danza è esplorazione di un mondo invisibile: senza il corpo non coglieremmo le idee, perché tutto è in relazione al corpo, intrecciato. E l’esistenza è questa trama, che trova espressione simbolica nella danza, che è sempre trascendimento di sé, tensione all’ulteriore. Essa consente di superare ogni visione dualistica, che distingue tra corpo e anima, materiale e immateriale: è tensione alla pienezza dell’essere. Il movimento del danzatore è la forma di un contenuto interiore che trova espressione attraverso il corpo; allo stesso tempo è possibilità di accedere all’ulteriorità, a mondi possibili. Un gesto visibile denso di presenze invisibili.

 

 

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