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Uno dei concetti fondamentali ai fini della relazione di aiuto è, per il Counseling Filosofico, quello di Visione del Mondo. Essa è una sorta di “vuoto e nudo reticolato” – come diceva Karl Jaspers, autore di Psicologia delle visioni del mondo (1950) –, che durante l’esistenza di ciascuno di noi viene riempito tramite le esperienze, i vissuti, le emozioni, la cultura e la formazione scelta, l’educazione ricevuta (compresa quella religiosa) e, potremmo dire oggi, anche mediante ciò che il DNA impone, caratterizzandoci geneticamente in un certo modo. Soprattutto la Visione del Mondo, fatta di tutti questi fattori consapevoli e inconsapevoli, viene composta da ciascuno di noi in virtù di un Senso, inteso sia come direzione che vogliamo dare alla nostra vita, sia come Significato che desideriamo attribuirle.
Essere consapevoli della propria Weltanschauung è fondamentale, al fine di poter tendere ad un’Esistenza Autentica, ossia congrua rispetto a quelli che sono i presupposti del nostro reticolato e rispetto al télos cui tendiamo. Affinché la vita pensata corrisponda alla vita vissuta.
Molte sofferenze, affrontate in sede di relazione di aiuto, sono riconducibili al vacillare delle coordinate esistenziali in base alle quali agiamo nel quotidiano, pensando che corrispondano al vero e al giusto, ma che – alla resa dei conti – si rivelano non appartenenti alla nostra autentica Visione del Mondo. Spesso le persone stanno male perché vivono un’esistenza non scelta, senza rendersene conto. Il malessere è un indicatore cui prestare ascolto, al fine di mettere al vaglio del dubbio i presupposti della concezione dell’esistenza e verificarne la coerenza.
La Visione del Mondo è paragonabile a degli occhiali, attraverso cui contempliamo il mondo e attribuiamo senso a ciò che ci accade. Pensiamo che non filtrino la realtà, che questa possa essere contemplata nella sua veridicità; tuttavia, a volte, non è così. Togliamo le lenti, o ci facciamo aiutare da qualcuno a farlo, ed ecco: riusciamo a vedere chiaramente, risvegliandoci dal torpore da – cui sino a quel momento – eravamo pervasi.
Un esempio concreto di Visione del Mondo inconsapevole è quella fornitoci da un episodio della serie televisiva Black Mirror: Men against fire (Gli uomini e il fuoco, stagione III, episodio 5).
La puntata narra la storia di un militare del futuro, Stripe, addestrato duramente a combattere delle strane creature, tra lo zombie e il vampiro, definite “i parassiti”. Sono mostruosi, violenti e repellenti … Molto semplice eliminarli poiché non meritano di esistere pericolosi come sono, abomini della natura. Compie, dunque, serenamente il suo dovere sino a quando qualcosa non va. Senza entrare troppo nel merito della trama, per non rovinare la visione di chi volesse vederlo, un giorno Stripe va in crisi: al cospetto di un cosiddetto “parassita”, non vede più un mostro, bensì una Persona. Una persona proprio come lui. E l’aiuta a scappare dai parassiti, ma un suo commilitone la uccide; non capisce come mai, fino a quando non comprende che qualcosa, nella sua “maschera” (un dispositivo impiantato nel suo cervello per aiutarlo a svolgere il suo lavoro) non funziona. Insomma, era la maschera che gli faceva percepire quelle creature come mutanti, terrificanti e aborti della natura, mentre erano semplicemente uomini come lui.
Al di là dell’interessante scelta del termine “maschera” per definire il dispositivo neuronale (il cui etimo latino ci porta, guada caso, al significato di “persona”, come era nella tragedia), ciò che colpisce è il fatto che ci si trovi di fronte ad una concretizzazione di visione del mondo inconsapevole: Stripe pensava di percepire la verità, che le cose stessero proprio come gli era stato inculcato o insegnato, invece si trattava di un inganno, di un modo per evitare a lui e ai suoi compagni d’armi sia il dissidio morale che la possibilità di scegliere. Era più semplice per loro vedere in quel modo l’altro, li faceva sentire legittimati nel togliere loro la vita.
Tale depersonalizzazione dell’altro in funzione del sistema, legata al macro-discorso intorno ai danni e ai pericoli insiti in una visione del mondo inconsapevole, ha un precedente storico-filosofico molto importante: La banalità del male di Hanna Arendt, pubblicato nel 1963.
Come è noto, la pensatrice tedesca narra del caso Adolph Eichmann, processato per i crimini contro l’umanità proprio in quegli anni, dopo essere scappato in Argentina, dove visse per diverso tempo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In breve, Arendt sostiene che il male perpetrato da Eichmann, e così da molti uomini immersi nel sistema messo in moto dal Nazismo, fosse dovuto all’inconsapevolezza circa il significato delle azioni operate da ciascuno di loro. Ne fa un eroe della mediocrità, della banalità appunto, un esempio di “uomo-massa” kierkegaardiano o dell’“uniformità gregaria” di cui parlava Michele Torre: viveva all’insegna del Man, del Si dice, Si fa, formulata da Martin Heidegger. La sua visione del mondo era eteronoma, non messa alla prova e, per questo, non si poteva considerare Eichmann pienamente responsabile delle atrocità perpetrate nei confronti degli altri esseri umani, presentati come inumani, proprio come nell’episodio di Black Mirror. Gli Ebrei vennero privati del loro essere persona nei campi di concentramento, tutto era pensato per togliere loro umanità e favorire il non-riconoscimento reciproco da parte di coloro che dovevano così recitare la parte degli aguzzini: ogni effetto personale era sottratto loro, così come ciò che li distingueva l’uno dall’altro (capelli, nomi, ricordi, cibo, etc.). Dovevano diventare delle ombre, ripugnanti e logore al fine di mettere a tacere la coscienza morale dei nazisti. Eichmann non era pienamente consapevole, e – affermando questo – Hanna Arendt non vuole scagionarlo completamente dalle sue responsabilità.
Entrambi i casi ci dimostrano, infine, quanto sia importante che ognuno di noi cerchi sempre di agire consapevolmente: la consapevolezza è alla base di un’etica veramente propria e garante di autonomia e non di eteronomia. Di conseguenza, bisogna avere ben chiaro, essere coscienti, dei principii e dei valori, delle norme su cui si regge il nostro agire morale, ossia avere coscienza di quale sia la propria personale Visione del Mondo. Molti di noi, invece, pur avvertendo malessere, procedono per inerzia, deresponsabilizzandosi e pensando che il mondo sia quello che viene filtrato dalle proprie lenti, dalla propria maschera. Il “sacrificio dell’intelletto”, di cui parla il nostro amato Jaspers, non favorisce una vita consapevole, anzi: ci mette, come Eichmann e Stripe, nella condizione di agire, vivere, secondo il pensiero altrui, seguendo la corrente del sistema di cui facciamo parte. Non bisogna essere sovversivi, ma tendere alla consapevolezza, al fine di non essere mere comparse bensì attori della nostra Esistenza.