Le notti in cui abbiamo dormito, è come se non fossero mai esistite. Restano nella memoria solo quelle in cui non abbiamo chiuso occhio: notte vuol dire notte insonne” (Emil Cioran)
Anni fa, preda dell’insonnia, mi sono imbattuta in un talk show notturno. Ironia della sorte, a parlare era un uomo, all’incirca di mezza età, che affermava (con mio grande disappunto) di non chiudere occhio dall’età di 18 anni. Ammesso che quanto narrava fosse vero, egli sosteneva di non riposare per nulla da quando – al militare – imparò a stare desto per evitare il crudele nonnismo che, per tradizione, veniva portato avanti nella sua caserma. Effettivamente non aveva un bell’aspetto; dimostrava molti più anni, i suoi occhi erano profondamente segnati, la pelle era tirata e sembrava che, da un momento all’altro, dovesse assopirsi mentre raccontava la sua tragedia personale al conduttore. La medicina non aveva potuto nulla nei suoi confronti, così come la psicoterapia. Non so che fine abbia fatto oggi quell’uomo rassegnato e spossato.
Christian Bale, nel film The machinist (diretto da Brad Anderson nel 2004) offre un’incarnazione molto vivida di quella notte eterna senza requie, che fagocita la carne di chi soffre di insonnia. L’uomo senza sonno è una concrezione dell’inquietudine del singolo.
Oltre che essere un disturbo psichico, l’insonnia è sicuramente un segno dell’irrequietezza dell’anima.
Durante la veglia, chi ne è turbato cade in balìa di una ruminazione mentale estenuante:
Che cos’è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni?” (Marguerite Yourcenar)
Le domande esistenziali si fanno largo, diventano impellenti; il senso di vacuità e frustrazione toccano limiti vertiginosi, generando spesso angoscia. Tuttavia l’insonnia non è solo questo. È, difatti, anche foriera di lucidità, di comprensione della nostra finitudine, come Emil Cioran stesso sottolinea:
L’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il Paradiso in un luogo di tortura”
Io passo molte notti così, intervallate – fortunatamente – da qualche ora di ristoro e sollievo; ma, quando non li trovo, ammetto di essere messa a dura prova. Di cosa mi parlano le ore di veglia?
Mi parlano di un rapporto conflittuale con la vita, secondo cui la notte è “spreco di tempo”. Dovrei vivere, invece mi abbandono al mero bisogno fisiologico di riposo. Come sostiene sempre Emil Cioran ne Il funesto demiurgo:
Durante l’insonnia mi ripeto, a mo’ di consolazione, che quelle ore di cui prendo coscienza le strappo al Nulla, che se dormissi non mi sarebbero mai appartenute, anzi non sarebbero mai esistite”
Non dormo e sono fiera di questa vittoria rispetto al vuoto di esistenza che – in apparenza – avviene durante il sonno. Allora sto desta, in maniera serena, cercando di lavorare, leggere e pensare a quanto – durante il giorno – ho dovuto sospendere perché presa tra un’incombenza e l’altra, cadendo in un paradosso colossale visto che – all’indomani – rischio puntualmente di vanificare la fruttuosità delle mie ore, dal momento che avverto la stanchezza conseguente all’operosità notturna. Quindi, cerco di fare pace con il mio essere anche Körper e non solo Leib. Lo accetto.
L’insonnia mi parla anche del fatto che, a fatica, io accetti la “piccola morte” che il sonno rappresenta. Hypnos, ci ricorda Esiodo, è fratello gemello di Thanatos. Il racconto mitologico, come sempre, ci offre una spiegazione delle “cose della vita”, provando a rendere pregnante e comprensibile ciò che, altrimenti, sarebbe ineffabile. Quando percepisco il sonno come puntiforme esperienza di morte, ecco che il sentimento del Nulla mi pervade. Emil Cioran esprime ciò molto meglio di quanto non possa fare io:
Avete mai subìto la tortura dell’insonnia, quando si avverte ogni istante della notte, quando esistete solo voi al mondo, e il vostro dramma diventa il più importante della storia, di una storia ormai svuotata di senso, e che neppure più esiste, giacché sentite levarsi in voi le fiamme più spaventose, e la vostra esistenza vi appare come unica e sola in un mondo nato solo per portare a termine la vostra agonia?”
La veglia diviene, allora, occasione di tormento, in cui l’angoscia è sovrana, impedendomi di godere della vita che, se dovessi essere coerente con quanto asserito poc’anzi, non starei sprecando … Invece sudo freddo, la vertigine mi coglie, il respiro diviene faticoso… rischio di venirne sopraffatta. Non è un attacco di panico, ma molto gli assomiglia. Quando avviene ciò, attuo diverse strategie. In primis, il divertissement: leggo, per portare il pensiero altrove, laddove il libro lo conduce. Se proprio non funziona, provo la meditazione trascendentale, quindi – partendo dall’ascolto di ogni parte del mio corpo – cerco gradualmente di tornare padrona della mia coscienza, di pilotarla verso riflessioni serene, fondate su un senso di accettazione del Nulla stesso da cui scappo. Non posso scapparne perché ne sono parte. Se, infine, anche la meditazione non funziona, mi alzo e faccio iniziare la mia giornata da quel momento. Ma quest’ultimo rimedio prelude alla vanificazione del giorno, che sarà inevitabilmente votato alla fatica e alla stanchezza … Sicuramente, l’esercizio filosofico – per come è stato connotato in precedenza – aiuta a rieducare i pensieri, favorisce l’acquisizione di un habitus fruttuoso, senza snaturare il singolo che lo pratica.
Il mio sonno – così come quello di molte persone – è un sonno di “cristallo”, quindi fragile in quanto facilmente disturbabile, ma anche in quanto parla della mia fragilità esistenziale. È un momento che parla di me e della mia visione del mondo. Il modo in cui dormiamo (o non dormiamo) parla di noi. Dobbiamo ascoltare perché ci fornisce un modo per conoscerci anche quando non siamo desti. È un indicatore importante del nostro rapporto con l’Esistenza e della concezione che ne abbiamo.